Dedicato ai bambini palestinesi e israeliani. Per l’integrazione e la pace tra i popoli.

Sul grande palcoscenico dell’esistenza: la vita nasce quando accogliamo l’altro.

Film documentario con Moni Ovadia e la Stage Orchestra, basato sullo spettacolo Ebrei e Zingari, con la partecipazione di Fabrizio De André.

I Rom rappresentano il popolo degli esclusi per eccellenza. Quelli che vediamo nelle città italiane, spesso vivono in campi più, o meno attrezzati, e sono profughi. Sono scappati dalla guerra civile nella ex Jugoslavia, o dal disfacimento di regimi totalitari come quello di Ceaușescu, in Romania. La condotta di vita che porta alcuni gruppi familiari a delinquere è frutto del degrado, della marginalità, dei traumi subiti per generazioni in sistemi escludenti e brutali. Le famiglie Rom che delinquono sono assimilabili a quelle italiane che vivono in condizioni di degrado, in zone emarginate dove lo Stato e il diritto sono assenti, come Scampia e lo Zen di Napoli e Palermo.
Moltissimi Rom sono integrati nella società, in Spagna e in Francia. In Italia si mimetizzano e spesso non svelano la loro appartenenza a questo antico popolo, come ha ben documentato Pino Petruzzelli nel libro “Non Chiamarmi Zingaro”. Lì ho letto la storia di un uomo di etnia Rom che vive a Genova, un tecnico esperto in sistemi d’allarme per le banche, per lavorare non dice di essere Rom.
La prima comunità Rom giunse in Italia nel 1400, molti arrivarono nei secoli, tutti noi potremmo avere qualche goccia del loro sangue. Grandi famiglie come gli Orfei sono Rom, Charlie Chaplin e Rita Hayworth lo erano.
Ho riscontrato grandi pregiudizi. Un’insegnante mi ha confermato che sui libri non si parla dei Rom, dello sterminio e di altro che li possa avvicinare a noi. Rifletteva sul fatto che rendendoli invisibili ci portano a odiarli.

Un uomo e un bambino suonano all’interno di un container, in un campo ai confini di Roma. Sono Marian e Antonio originari di Bucarest, un padre e un figlio che comunicano con i loro strumenti: una chitarra acustica e una fisarmonica rossa. Il padre tramanda al figlio una passione, il legame con una cultura che si sta perdendo, tra immondizia, topi, canali televisivi e l’estrema necessità d’imitare la realtà fuori dal campo. La sera Marian si riunisce con familiari e amici davanti al fuoco, suonano e si riscaldano con le stesse fiamme, che in tragici momenti hanno inghiottito i bambini della comunità. Sulle note del violino di un musicista gitano scongiurano questi eventi luttuosi, accaduti nell’indifferenza generale. Eventi che rimangono nella memoria, come la storia di un giovane rom, una figura leggendaria, che scampò miracolosamente all’incendio del suo caravan. Nonostante le ustioni e le gravi menomazioni alle mani iniziò a suonare la chitarra, sviluppando una tecnica talmente originale da farlo diventare uno dei più grandi jazzisti di tutti i tempi. Si chiamava Django Reinhardt. Un padre e un figlio, jazzisti manouche, continuano la tradizione del loro maestro Django, esibendosi a Saintes Maries de la Mer, nel sud della Francia. Qui, ogni anno, i rom di tutta Europa partecipano al rito della loro patrona, Santa Sara, tra musica, balli e la ricerca di un’identità. Isak, Virgil e Ivanta sono una famiglia di musicisti rom, fuggiti dalla miseria del regime rumeno e rifugiatisi in Italia. Virgil era il direttore dell’orchestra popolare, Ivanta erede di una stirpe di grandi cantanti. Con eguale dignità si esibiscono per strada, o in grandi teatri. Paolo Rocca, musicista italiano di grande sensibilità, li ha accolti nella Stage Orchestra di Moni Ovadia, dando loro la possibilità di esibirsi con l’artista di origine bulgara. Moni Ovadia, accompagnato nel suo spettacolo dalle struggenti e frizzanti sonorità rom, fa conoscere una tradizione musicale e una storia disseminata di viaggi e discriminazione, fino al porrajmos, lo sterminio del popolo rom. I nazisti uccisero cinquecentomila rom, migliaia di bambini finirono nelle camere del dottor Mengele, dove venivano impiegati come cavie umane, prima di finire nei forni. I musicisti rom, sotto il fumo dei grandi camini, continuarono a suonare le loro melodie piene di sentimento e di rinascita. La stessa musica continuano a suonare ai margini delle città, nelle piazze e nei grandi teatri.

Les gitans ne sont pas un problème, le problème est chez nous. Même l’idée du nomadisme, c’est juste une idée à nous. La majorité de la population gitane est sédentaire, vit dans des maisons. Il n’y a pas de vocation pour le nomadisme.
Ils ont été chassés, persécutés. Ils étaient destinés à l’extermination, exactement comme les Juifs. À Auschwitz, le Dr Mengele utilisait les enfants gitans et les juifs comme cobayes.
Un monde de barrières, de murs, et pas un monde de frontières, qui sont le lieu où les altérités se rencontrent et s’accueillent.
C’est un peu comme les corps de l’homme et de la femme, ils sont deux limites distinctes. La vie commence au moment où les limites s’adoucissent et s’accueillent mutuellement. (film-documentaire.fr)